Liceo classico, un professore attento, di quelli che senza comprendere fino in fondo perché, vengono oggi definiti “Di un’altra epoca”, accende la luce su una passione. Il professor Martino non lo sa, ma quelle lezioni di scienze di due ore a settimana porteranno trent’anni dopo a un’eccellenza italiana.

Aule che hanno fatto la storia, tra quartiere Prati e le mura vaticane, l’alunna che ascoltava quel professore memorizzando ogni sillaba era Alessia Di Gianfrancesco, oggi direttore generale dell’antidoping italiano, considerata a livello internazionale come una delle figure più preparate al mondo in una materia fino a poco tempo fa di indiscussa appartenenza all’emisfero maschile. Oggi la dottoressa Di Gianfrancesco incarna non solo un percorso di successo a cavallo tra scienza e amministrazione, tra studio e pratica, ma è soprattutto l’immagine pulita di un mondo che sa cambiare, comprendere la sua epoca, interpretare il suo tempo.

Lo sport italiano le ha dato fiducia, e molto lo si deve soprattutto all’attuale presidente di Nado Italia (l’organo che appunto sovraintende all’antidoping per il nostro paese), il professor Fabio Pigozzi, attualmente anche alla guida della Federazione Internazionale di Medicina dello Sport che a tutti i costi l’ha voluta in prima fila nella lotta italiana al doping. Una scelta tanto apprezzata da vedere proprio in questi giorni la dottoressa Di Gianfrancesco tra le protagoniste dell’inchiesta sul doping delle “Iene”, capace di spiegare tecnicismi, burocrazia e percorsi di una materia per molti ancora oggi incomprensibile.

Ma per comprendere come possa formarsi una figura e una professionalità di tale forza, bisogna fare più di un passo indietro, tornare a quell’Italia di inizio anni Novanta distante dall’eccellenza antidoping a cui è approdata tre decenni dopo.

E’ il 1991, un padre perso da pochi mesi, il primo impiego al Coni, in un ufficio lontano dai riflettori, agli impianti sportivi, direttore Giuseppe Rinalduzzi, che per chi ha seguito la politica sportiva a metà degli ultimi due secoli, rappresenta uno dei dirigenti che più ha saputo spendersi per tenere alto il livello dell’infrastruttura sportiva italiana.

“Otto anni fatti di documenti – racconta -, di pagine studiate cento volte per legare un cavillo all’altro, perché di fatto solo così si riesce alla fine a comprendere il senso di una struttura che deve saper coniugare la sua storia con la necessità di una nuova modernità propria del mondo dello sport”. Un’immagine simbolo di quegli anni? “I libri. Guardo indietro e mi rendo conto che i testi sono l’oggetto che definisce meglio quel periodo della mia vita. Studiavo per comprendere il mestiere, tornavo a casa e studiavo per finire gli esami universitari. Luce spenta dopo mezzanotte, un giorno dopo l’altro fino alla laurea in chimica farmaceutica. Poi ancora libri, per i due concorsi che servivano a salire di qualifica, i banchi dell’Ergife, altre notti sui capitoli di diritto commerciale e diritto civile”.

A colpire della dottoressa Di Gianfrancesco è la capacità di nascondere dietro un’apparenza fatta di eleganza, grandi occhi celesti e racconto della sua storia quasi come una favola, una caparbietà che si può quasi toccare con mano, una capacità granitica di reagire alle esigenze rigide di una attività che non ammette zone grige, che per essere davvero d’eccellenza impone una attenzione e una lettura precisa dei capitolati costruiti dalla World Antidoping Agency.

Ancora un passo indietro. Prima al protocollo, poi ufficio delibere per lavori e acquisti da presentare alla Giunta Coni. Il prodotto più oscuro e complesso del mondo dello sport italiano. Quella è la cinghia di collegamento tra Coni e pubblica amministrazione: se lo sport italiano sta in piedi è anche grazie a quelle stanze. Poi ufficio del personale della gestione impianti sportivi: al tempo contava circa 250 persone. E’ l’ultimo capitolo, le ultime lezioni prima di una svolta decisiva: gli studi la portano verso la l’analisi scientifica, il presidente Gianni Petrucci è da poco alla guida del Coni, arrivato in uno dei momenti più complessi della storia dello sport italiano. C’è da ricostruire di fatto l’intera colonna vertebrale di quel mondo. Uno dei primi atti firmati riguarda proprio la dottoressa Di Gianfrancesco, Petrucci ha l’intuizione giusta, una delle tante che caratterizzerà la sua storia, e la trasferisce all’antidoping italiano.

“Era il momento adatto per affrontare un’avventura con consapevolezza”. Perché di questo si è trattato: l’antidoping era una struttura a dir poco fatiscente. Andava costruita, andava pensata. “Di fatto l’antidoping era una cosa un po’ così – racconta -. In questi 24 anni è stato fatto tutto. Nasce la procura, io era solo la seconda persona dello staff interno. Oggi siamo in diciannove: 16 donne e 3 uomini”. Pausa, un sorriso che tradisce un lampo di soddisfazione. “Guardi, da noi le selezioni sono rigorose, se legge uno squilibrio di genere in questi numeri è solo perché le donne hanno avuto la meglio. Mi passi una battuta: diciamo che si è trattato di un processo darwiniano”.

Dal 2011 al 2019 membro dell’Health Medical and Research Commitee della Wada: “E’ la commissione medica dove viene approvata la lista delle sostanze e dei metodi proibiti. Una palestra decisiva. E’ la commissione che finanzia i progetti a livello mondiale e dove afferiscono tutti i dati di laboratorio. Lì si capisce sul piano scientifico dove sta andando il fenomeno doping. E’ lì che ho compreso con chiarezza che una struttura come questa ha esigenza di uscire da una interpretazione casalinga. Ci si deve interfacciare col mondo se si ha l’ambizione di essere davvero una eccellenza internazionale. E posso dirle con certezza dopo tanti anni trascorsi a confrontarmi con medici, scienziati, dirigenti di tutto il mondo, che l’Antidoping italiano è oggi davvero considerato come una realtà di grandissima qualità: ha bisogno di essere potenziato come organizzazione, ma lo sguardo che all’estero hanno di noi è di capacità cristallina. I tanti Audit attraverso i quali è passata questa struttura sono serviti a certificare questa eccellenza. Con un po’ d’orgoglio posso dire che siamo all’avanguardia sia sul piano scientifico che su quello sociale per quanto riguarda le politiche di genere”.

Il tema della presenza femminile nel mondo del lavoro e in particolare in quello sportivo è ricorrente nelle parole della dottoressa Di Gianfrancesco. “Qualunque cambiamento culturale richiede tempo Oggi abbiamo un presidente del Consiglio donna, non entro nel merito politico, ma in quello sociale: vent’anni fa nessuno lo avrebbe ritenuto possibile. Dobbiamo rendere naturale questo processo, non considerarlo un capitolo unico o peggio ancora impossibile da replicare”. In questo senso può dire di avere assistito a un cambiamento in questi anni? Lei dovrebbe rappresentare un esempio: “Sul piano pratico e culturale, l’obiettivo è conciliare famiglia e impianto professionale: sono fiduciosa, ma è un passaggio che richiede pazienza. E qualche volta capisco che questa pazienza porti all’esasperazione”. Madre di due figli, moglie, dirigente: “Rinunci a un pezzo della tua vita, non c’è niente da fare. Sacrifici, qualche volta non basta l’aiuto di tua madre e di tuo marito, che nel mio caso ci sono sempre stati. Siamo indietro rispetto al resto del mondo, fuori da questi confini non è così. Qui la donna viene vissuta con dei limiti, con dei punti di riferimento prestabiliti, è una questione culturale. Come se le leggi non bastassero a non tenerla un passo indietro. L’Italia è ancora figlia di un pregiudizio culturale, ci si lavora, ma è lunga”.

Fastidio chiuso in un battito, per far posto a un pensiero convinto che regala un altro orizzonte: “Se guardo un poco più lontano, se interpreto questo lavoro all’interno di un perimetro internazionale, allora le cose cambiano davvero. Lì numerosi ruoli di vertice nell’antidoping sono ricoperti da donne. Come si fa a dire che il mondo dello sport, almeno quello, non sia cambiato?”.

L’Olimpiade di Milano Cortina è alle porte e l’antidoping italiano si trova stretto tra istituzioni, organizzazione sportiva e improcrastinabili richieste del rispetto dei protocolli internazionali.

“Dobbiamo essere messi in grado di rispondere prontamente alle esigenze proprie di ogni organizzazione antidoping. Pena la perdita dell’accreditamento da parte della Wada, condizione fondamentale per operare e per far sì che nel paese di appartenenza si possano organizzare manifestazioni internazionali. E questo passa per una garanzia del budget necessario ad affrontare una programmazione dei controlli e un reclutamento delle risorse umane necessarie per rispondere agli standard stabiliti dalla Wada. Il contrasto al doping ha bisogno di risorse non solo destinate all’esecuzione dei controlli ma a molte altre attività, dall’investigazione alle iniziative dedicate all’educazione e alla formazione, unici validi strumenti di prevenzione del doping”

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